Il costume ciociaro, San Magno e San Martino
IL COSTUME CIOCIARO (ciocia e abito)
LE CIOCIE
Il termine “ciociaro” deriva dal nome di un antico calzare indossato dalle genti che abitavano i luoghi del basso Lazio: la “ciocia”.
Le “ciocie”, diedero il nome ai pastori che abitarono le campagne a sud di Roma, più propriamente di tutta l’area geografica quale oggi è la provincia di Frosinone e già dal Settecento anche ad una parte del suo territorio, all’inizio non ben definito, che corrisponde all’attuale Ciociaria. I suoi abitanti si chiamano “ciociari”.
La “ciocia” è una calzatura composta da una suola realizzata in pelle animale o di cuoio, opportunamente trattata e modellata, che avvolge il piede e fermata alla gamba da “strenghe o lacci o corregge” anche esse in cuoio o tessuto. Esse venivano indossate indifferentemente dagli uomini e dalle donne e assieme alle cosiddetta “pezza” cioè un’unica fascia di tessuto bianco che avvolgeva completamente piede, caviglia e polpaccio. Gli uomini le indossavano sotto a dei pantaloni fino al ginocchio, mentre le donne sotto le gonne lunghe fino alle caviglie.
A corredo delle ciocie si indossavano calzini di lana bianca per proteggersi dal freddo ed i pastori spesso utilizzavano il ‘guardamacchia’: una pelle di capra dal lungo pelame, posta sopra i calzoni e legata alla cintura e ai polpacci.
Secondo il Santulli il termine ciocia deriverebbe dai vocaboli francesi ‘chauces’ da cui ‘chausse’ o dal termine inglese ‘shoe’ o tedesco ‘Schuh’.
Nello Proia ne “La Ciocia” – Un Prodotto “D.O.C.” di Anagni e della Terra del Frusinate: Storia, leggenda e tradizione di uno dei “richiami” più popolari del Folklore Italiano, scrive: “ Nella Ciocia, emblema di questo popolo solido e fiero, la Ciociaria appare allegoricamente in tutta la sua più reale e concreta grandiosità morale e civile. Quelle suole e quelle strenghe riassumono e rievocano più d’ogni altra cosa la terra inesauribile che mai lesinò di offrire alla storia di ogni tempo tutti i suoi prodotti migliori: il leggendario “pero”, originario del “sokkus” greco e precursore della ciocia latina”.
Alberto Moravia nel celebre romanzo "La ciociara" fa diversi ed espressi riferimenti alla ciocie e uno di questi dice: “Il bruno, intanto, studiava i piedi di Rosetta che portava le ciocie, come me. Alla fine domandò: “Scarpe?” e si chinò a toccare le ciocie e poi con le mani, seguendo le cinghie delle ciocie, risalì su per il polpaccio. Io allora, gli diedi un colpo secco sulla mano dicendo: “Ahò, giù la mano, sono ciocie sì, che c'è di speciale?...Lui anche questa volta finse di non capire e, indicando la ciocia di Rosetta, prese la macchina fotografica e disse : “Fotografia?”. Io dissi allora “Le ciocie le portiamo ma non vogliamo che tu le fotografi. Perché poi magari vai a casa tua e dici che noialtri italiani portiamo tutti le ciocie e non conosciamo le scarpe…. Ciociara sono e me ne vanto…”
Il costume “ciociaro”, pur avendo un’origine umile, realizzato inizialmente da popolani e fatto di “stracci”, è stato ritratto a partire dalla fine del ‘700 da numerosissimi pittori. Nella Storia dell’Arte di rado si sono riscontrati temi così ampliamente ritratti da pittori e scultori di tutte le epoche e di tutte le correnti artistiche, da Pablo Picasso, Telemaco Signorini, Bouguereau, Degas, Corot, Renoir, Fattori, De Chirico, Cezanne e per citare l’ultimo, ma non meno importante pittore di origini anagnine: Giovanni Colacicchi con la sua “ Donna d’Anagni” dove una donna in abiti ciociari tiene in grembo un bimbo che sta per allattare e poggia in maniera solenne su un sasso il proprio piede che indossa la ciocia, a simboleggiare e ricordare l’origine dal popolo ernico.
Oggi esse restano il tratto distintivo del folklore e dell’artigianato locale.
IL VESTITO CIOCIARO
Già al tempo degli Ernici furono introdotti elementi caratteristici del costume ciociaro, tipici ancora oggi:
Pennenti
Fazzolettone
Samento
SAMENTO
Il primo elemento del nostro costume resta indubbiamente il Samento, un manto fatto con la pelle dell’animale, di razza bovina, caprina od ovina, sacrificato al Dio Saturno nel corso dei riti saturnali.
“Flame, Sume Samentum” è l’unica frase arrivata fino ai giorni nostri del misterioso linguaggio ernico, che secondo Marco Aurelio significava: “Sacerdote, imponiti il Samento”.
PENNENTI
I Pennenti, grandi e lunghi orecchini pènsili generalmente coniati con metallo prezioso, costituivano uno dei più ambiti capi di dote spettanti alle novelle spose dell’epoca.
Nel corso del rito nuziale, il sommo sacerdote consegnava un “pennento” a ciascuno dei due sposi dopo averli consacrati alla divinità. I due monili restavano di proprietà di uno solo dei due coniugi fino al giorno della nascita del primo figlio, infatti in quest'occasione l’uomo, cedeva alla donna il pennento di sua proprietà, permettendo a costei di poter finalmente cingere entrambi, diventando insieme simbolo di avvenuta maternità.
FAZZOLETTONE
Il fazzolettone era un segno di castità ed illibatezza.
Per le fanciulle nubili che, durante la celebrazione dei saturnali, entravano nei templi per assistere ai riti sacri, vi era l’obbligo di coprire il capo con un fazzoletto ad ampie proporzioni, dalle grandi falde e dai colori vivacissimi (secondo una moda cretese assimilata dagli ernici), a simbolo della loro verginità. Questo copriva il loro capo fino a quando non ricevevano uno dei due pennenti
Gli abiti dei ciociari erano “stracci” colorati che loro stessi realizzavano in casa: panni di lino e cotone o lana tinti a mano con prodotti naturali: mallo di noci, fuliggine, corteccia di castagno, fiori di ginestra, la rubia, il guado.
Da questa umile origine, via via l’abito ciociaro acquisisce importanza, proprio per via del fatto che i grandi pittori amavano ritrarre soggetti in costume ciociaro. Il primo ad occuparsi e a descrivere il fenomeno straordinario del “Costume Ciociaro” fu il Gregorovius, il quale descrisse questo abito non solo come “elegante”, ma come “il costume degli italiani agli occhi degli artisti di tutta Europa”. Non è a caso che Van Gogh e Boccioni dedicano al costume ciociaro delle tele.
L’ABITO FEMMINILE E MASCHILE
La donna ciociara possedeva due abiti: un abito per tutti i giorni e uno per i giorni di festa.
Abito di tutti i giorni
La camicia
Di colore bianco, con le maniche ampie e scollatura a barca con un’ apertura sul petto chiusa da un cordoncino colorato annodato in un fiocco. Questo modello aveva molte varianti; poteva essere di colore diverso, a tinta unita oppure a fantasia, con scollatura quadrata o tonda abbottonata dietro o davanti.
Il busto
Busto rigido con scollatura quadrata, chiuso dietro mediante una lunga stringa e davanti dai ganci. Poteva essere di diversi colori.
La gonna
Era in cotone a fiori o a strisce su fondo a tinta unita, arricciata in vita, dove si allacciava con una fettuccia. La fascia all’orlo era interamente decorata da una striscia di tessuto che conteneva a volte piccole pieghe.
Lo zinale
Grembiule rettangolare nero o blu, con una o più fasce di tessuto colorato a tinta unita o a fiori.
La mantila
Rettangolo di stoffa che copriva il capo, ornata spesso con merletti e ricami (nell’abito di tutti i giorni non era esclusivamente bianca, poteva essere anche colorata)
Abito della festa
La camicia
Era una camicia molto lunga, aveva la funzione dell’attuale biancheria intima. Le maniche ampie. La parte sotto le ascelle era di solito un riquadro di stoffa che poteva essere sostituito dopo l’usura. Il colore della camicia era il bianco.
I mutandoni
Erano lunghi fino al ginocchio e ricamati con pizzi e merletti propri del gusto e delle possibilità individuali della donna.
Le calze
Calze di lana lunghe fino al ginocchio. Potevano essere di colori chiari a tinta unita oppure a strisce bianche e di altro colore.
Il corpetto
Realizzato con stoffa morbida, come il panno, in colori sgargianti (rosso, verde, blu) e chiuso sul davanti con un laccetto nero.
Il busto
Realizzato in velluto nero oppure in panno, era ovviamente rigido grazie alle stecche interne di sostegno. Indossato sopra il corpetto, la sua rigidità modellava tutta la figura.
La gonna
Ricca di pieghe nella parte posteriore , priva sul davanti, era quasi sempre bianca, ornata da una fascia colorata verso la parte finale (per le molte donne ciociare che prestavano servizio come balie presso le famiglie benestanti, il colore della banda, era indicativo proprio della casata di appartenenza).
Lo zinale
Grembiule realizzato quasi sempre con la base in nero intervallata da due strisce di stoffa colorata. Di forma rettangolare, sostenuto da una fettuccia girata più volte intorno alla vita.
I manicotti
Simili a delle maniche, coprivano dal gomito al polso e venivano utilizzati dalle donne proprio per proteggere nella parte dell’avambraccio la camicia della festa.
La mantila
Rettangolo di tela bianca che va a coprire il capo. Poteva essere diversamente ripiegata e ornata secondo varianti personalizzate.
I coralli
Collana di corallo con un fermaglio in oro. Poteva essere composta da uno o più fili, a seconda delle possibilità economiche (solitamente i coralli erano il regalo della suocera alla nuora nel giorno delle nozze.)
Gli orecchini
I più comuni e sicuramente i più caratteristici tra quelli indossati dalle donne ciociare erano orecchini lunghissimi, in oro rosso, spesso con una perla oppure con un corallo terminale. Si distinguevano in “Boccole”, “Pennenti” e ”Navicelle”. Le Boccole erano quelle realizzate con il corallo, mentre i Pennenti realizzati con una grande perla a goccia nel terminale.
Il fazzolettone
Un pezzo di stoffa di forma triangolare, ma ripiegato da poter essere indossato come se fosse rettangolare sul capo, di solito in cotone bianco, fissato ai capelli acconciati in ciuffi attraverso “lo spadino”, che aveva una duplice funzione per le donne: la prima era quella di tenere fermo attraverso un gioiello-ornamento il copricapo, la seconda era utilizzato anche come arma di difesa, poiché terminava con una punta e sul lato opposto con una piccola ghianda, a ricordare la quercia, da sempre accreditata come simbolo di potenza e nell’antichità l’albero delle divinità più importanti, il suo frutto sta a simboleggiare tutte virtù quali: forza, coraggio, dignità, perseveranza, virtù queste che le donne ciociare dovevano possedere.
L’abito maschile:
La camicia
Bianca per la festa, a quadri per tutti i giorni. In entrambe i casi le maniche erano molto ampie. La camicia bianca era solitamente realizzata in cotone, quella a quadri invece in stoffe morbide o pesanti come il fustagno.
I pantaloni
Erano generalmente di colore scuro a tinta unita, realizzati in panno o velluto e lunghi fin sotto il ginocchio. I pantaloni di colore nero erano quasi sempre bordati di rosso.
Le calze
Come quelle delle donne, anche le calze degli uomini potevano essere realizzate a tinta unita o a righe di colori diversi, prevalentemente scuri.
La fascia
Striscia di stoffa morbida e dai colori vivaci. Veniva girata più volte intorno alla vita e aveva lo scopo di sorreggere il pantalone.
Il giubbino
Era senza maniche, come un panciotto, e veniva indossato sopra la camicia. Realizzato in panno dai colori vivaci oppure in velluto liscio o a costine.
Il costume maschile poteva essere completato anche da un cappello, generalmente in feltro, e da un mantello in stoffa pesante. Entrambi di colore scuro.
Bibliografia:
M. Santulli “Il Costume Ciociaro nell’Arte Europea del 1800 – Edizioni Ciociaria Sconosciuta
N. Proia “La Ciocia” – Marzo 2014
Atti del Convegno morolano del 27 gennaio 2013 – di Gioacchino Giammaria: Ricostruire i gioielli antichi oggi a cura del Maestro Artigiano Maurizio Imperia.
SAN MAGNO
Ogni 19 di agosto qui ad Anagni si celebra la festa patronale, come già accennato capita nel periodo in cui finisce il tempo di mietitura del grano.San Magno o meglio Magno da Trani, è il nostro patrono.
Noi anagnini ne andiamo orgogliosi e infatti, ogni volta che si avvicina la festa patronale, d'un tratto diventiamo ancora più uniti e più gelosi della nostra festa. Ci lega di più gli uni dagli altri, si crea quell'atmosfera in cui vedi le persone ballare, abbracciarsi, offrirsi qualcosa,chi si veste con i costumi tipici della festa medievale, chi mangiare le noccioline o chi peggio ancora si mette a gridare "EVVIVA SAMMANNO!” con tutto il fiato che abbiamo in corpo…
Certo è che, però a differenza di alcuni paesi vicino dove il santo protettore è tenuto in considerazione devota tutto l’anno, qui nessun anagnino spende il suo tempo a magnificare il proprio patrono al di sopra dei patroni degli altri paesi.
La prima “processione” di S. Magno avvenne, secondo la tradizione, l'anno 877 dell'era cristiana, quando il corpo del martire tranense fu riscattato, dai saraceni comandati da Muca: fu in questa occasione che, raccontano le storie, i cavalli che trascinavano il carretto che custodiva la salma del santo si fermarono all'improvviso e non vollero più andare avanti. Gli anagnini allora fecero promessa di far diventare il santo protettore della città, di costruirgli una grande chiesa e di onorarlo ogni anno con feste nella data del 19 agosto: fu solo in seguito a questa promessa che i cavalli ripartirono verso la città di Anagni.
Una festa sui generis, molto partecipata e anche molto colorita, quella per San magno, che fino al 1581 (post concilio di Trento) veniva con processioni mascherate: fu solo in quest’anno che la visita del mons. Vincenzo Ercolani proibì queste ultime sub poena di 200 scudi aurei, ordinando che, nella vigilia della festa, quindi il 18 agosto, si tenesse post vespera una pubblica processione cui dovevano partecipare devotamente sia il clero sia il popolo.
Emblematica la fierezza e il tratto cosnervatorio nei confronti di questa festa è un episodio avvenuto ad inizio nel Novecento: in quegli anni commissionarono a degli artigiani pugliesi un nuovo S. Magno in cartapesta e a corpo intero. La nuova statua era imponente, come si può ancor oggi constatare, in quanto essa conservata tuttora presso il monastero delle suore Cistercensi della carità, conosciute come "le monachelle". E quindi, la sera del 18 agosto 1905 la nuova statua fece il suo debutto sulla scena cittadina prendendo il posto dei due soliti mezzibusti argentei raffiguranti San Magno e San Pietro da Salerno. Lo stupore della cittadinanza fu alto e la reazione non fu particolarmente favorevole: il popolo furente prese a cocomerate e pomodorate la nuova statua, chiedendo a gran voce il ritorno all'antico e gridando allo scandalo. Il corteo dei canonici rientrò in gran fretta in cattedrale e la processione in tal modo finì.
Questo fa capire come effettivamente siamo noi anagnini riguardo il nostro Santo Patrono, non accettiamo stravolgimenti o altro, siamo semplici e conservatori.
SAN MARTINO
In passo S. Martino ed il culto religioso cui è legato era molto sentito nella città di Anagni, con testimonianze sin dal medioevo. Possiamo ritrovare un oratorio dedicato al santo nel fondo rurale di Arenzano che papa Gregorio IX donò ai padri florensi dell'Abbadia della Gloria. Abbiamo testimonianze del culto anche presso la Cattedrale, dato che il giorno di San Martino (11 novembre) i canonici dovevano ricevere dal Vescovo un ricco pranzo uguale a quello natalizio.
Nel tessuto urbano era rintracciabile anche una fontana di San Martino, come anche un altare dedicato al santo nella navata sinistra della chiesa di Sant’Andrea, intorno al 1581.
Oggi del culto del santo abbiamo perso ogni traccia e memoria, con la sola vecchia pala d’altare con l’effigie del santo conservata nella suddetta chiesa di Sant’Andrea.
Secondo la credenza popolare S. Martino è stato per tutti un gran santo, da venerare, perché protettore degli uomini traditi, non a caso la sua festa ricorre l'11 di novembre: (I’11
del giorno e l’121 del mese ripropongono le due dita della mano (l'indice ed il mignolo) il simbolo delle «corna».
Il tradimento della sorella è stata la Cagione vera per cui S. Martino è diventato protettore dei «cornuti».
Un intervistato ha così sintetizzato la vicenda:
«Sa'martino portà pe' vent'anni la sore 'ncojo: comme l'appusà De' tera, ci se la freganno !»
(S. Martino portò per venti anni la sorella in collo: la prima volta che la posò per terra, gliela
presero). Un altro detto dialettale conosciuto nella città ernica è: «Sa' Mmartino, co' tutte le corna 'nsino».
Ecco uno dei racconti su San Martino fatti da una signora di Anagni:
«Sa' Mmartino era nu brav'ome, ma teneva 'nu difetto, ju stesso che ténno puro oggi tanti ómmeni: era giluso frâcico della sòre. 'Nse fideva, la teneva sempre sotto controllo: guai
a chi ci ss' accosteva! Comme se dici? Spaventeva puro all'ombra!
I allora, mai 'nu momento de requie, sempre tacca tacca appresso alla sòre. "Nsomma, nne lla saria lasciata sola manco quando teneveta ì a fa le cose sej.
Quando era costretto a mannalla a fa' "ca bisogno, (prima andò steveno i bagni, attocchéva arrangiasse drèto a 'ca fratta!), isso, furbo, che faceva? Ittéva prima nu sasso 'mmézzo alla fratta pe' fa' vola' i passeri che ci stéveno appullaiati dréntro, i la mannéva sulo si chii scappeveno. Ma, comme dice iu détto? «Co' lle fémmene 'nci l'appotì manco iu diavolo!»
Propria repenzenne a stu fatto, la sore de Sa' martino truva' la soluzione pe' frega' iu frate. Se mésse d'accordo cu "'nu giovanotto che ci ieva apprésso i ci dicine: «Vidi ca ia a tal'ora passo pé' chella strada. Tu fatte truva' annascosto addrèto a chio frattone (i ci' azzinga' ju posto), co
'na gabbia co' dua tre cillitti drento, i aspètteme. Ci dico ca téngo da fa' 'nu bisogno, i comme isso ietta iu sasso, tu rapri la gabbia, fa' scappa' i passeri... i doppo i guai chi i tè i tè!».
I allosi facinno. Ecco perché da chijo giorno, poro Sa' Mmartino (che sia benedito pur isso ando' sta no ), h'addiventato curnuto!».
Raccogliamo l’usanza di una singolare processione che si teneva la notte dell’11 novembre nella nostra città:
“La sera dell'Il novembre, sul tardi, ci si ritrovava tutti a Porta Cerere, nella parte bassa della città e si dava inizio alla cerimonia, che era riservata solo ai maschi («a j’ómmeni fatti, de na certa età»), i veri «devoti del santo», gli unici festeggiati.
Elemento coreografico per eccellenza e vessillo della processione erano «le corna»: ognuno nei giorni che precedevano la festa cercava di procurarle, ornandole in qualche caso con fiocchi e nastrini colorati.
Due grandi corna infilate ad arte, e ben in vista su una lunga asta, aprivano il corteo.
Dopo aver acceso i ceri e le torce, il corteo si muoveva allegramente tra la musica, i canti ed il chiasso. In testa i «capocci» ed i «fratelli» più fedeli, con i vessilli più vistosi, poi tutti gli altri, armati di corna, di cetrioli e di cocuzze «lónghe e réntorte», con strumenti musicali veri e di fortuna.
La processione prevedeva delle fermate obbligate («le stazziunis), che erano in genere quindici, venti ed anche di più.
Queste venivano decise sempre dal capo corteo. Alcune fermane crano classiche e si effettuavano solitamente all'altezza di quelle case «certe, sicure», dove la certezza delle «corna» e
della «devozzione a Sa' Mmartino»» erano pubblicamente conclamate, dogma assoluto. In questo caso, dopo l'ordine di fermata, si faceva assoluto silenzio, tutti i fratelli si inginocchiavano in raccoglimento, il “capobanda” invocava la benedizione del santo protettore sulla casa «fortunata», ripetendo: «Sa' Mmartino beneditto, proteggi le corna de 'stu titto». Poi tutti in coro ed a gran voce ripetevano con lui: «Grazzia Sa’ Mmartì, grazzia, grazzia!». Nelle fermate ritenute dubbie e dove c'erano solo indizi e qualche sospetto, il rito propiziatorio era diverso. Ad inginocchiarsi ed a perorare la causa e la protezione del santo verso il probabile «fedele» erano i soli capi, quelli dal sicuro carisma e dalla lunga militanza.
Insieme alle fermate di preghiera erano previste, naturalmente, fermate di ristoro nelle cantine che si incontravano lungo le strade per rinfrescare le ugole e riprendere nuovo vigore.
Solo a notte inoltrata il corteo si scioglieva ed i vessilli e le insegne venivano ammainati e riposti nei cassetti per l'anno seguente.
La processione ebbe fine verso i primi anni Cinquanta a causa di alcune degenerazioni verificatesi nel corso di una processione.”